Biografia Leonard Cohen

Poeta, romanziere, cantautore, Leonard Cohen è un artista complesso e affascinante. Turbamenti religiosi e malinconie esistenziali hanno fatto scrivere ai critici americani: "Impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole". Ma la sua voce "simile a un rasoio" e le sue canzoni hanno influenzato generazioni di cantautori (da Nick Cave a Fabrizio De André) e hanno fatto sognare milioni di fan nel mondo. Storia di un lungo viaggio, iniziato nel 1968 con dieci "Songs"...

Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore". È questa la poetica e la filosofia con cui Leonard Cohen ha costruito non solo la sua carriera artistica, ma la sua stessa vita. Da una montagna sovrastante Montreal a un'isola greca, attraverso un incredibile viaggio che lo ha portato a Los Angeles, ha esplorato quella "remota possibilità umana", divorando sensazioni, senza rimorsi. La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose sfiorate, allusive solo in apparenza. La grande passione è sempre stata la scrittura, il succedersi delle parole. Negli ultimi trent'anni sono usciti otto volumi di poesie, due romanzi e undici album, che negli States non tutti conoscono. In Europa, invece, il cantautore canadese è un vero idolo. In Polonia vende più dischi di Michael Jackson, e a Cracovia si svolge ogni anno un Leonard Cohen Festival. Innumerevoli personaggi del rock da Nick Cave a Morrissey hanno riconosciuto di essere stati fortemente influenzati dalla musica di questo menestrello delle emozioni. Il tempo di Cohen ha un suo ritmo: "Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l'opus della mia vita. Il nostro lavoro è l'unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose".

Nato da genitori ebrei, a nove anni Leonard perse il padre. Un fatto che segnerà in maniera indelebile la sua personalità. La sua attività artistica inizia soprattutto in veste di poeta e scrittore. La sua prima collezione di poesie, "Let Us Compare Mythologies", viene pubblicata nel 1956 quando è ancora studente universitario. "The Spice Box Of Earth" (1961), la sua seconda collezione, lo lancia verso la fama internazionale. Dopo una breve parentesi alla Columbia University a New York, Cohen ottiene una borsa di studio e parte per l'Europa, stabilendosi alla fine nell'isola greca di Hydra, dove convive per sette anni con Marianne Jenson e il figlio di lei Axel. In Grecia scrive due romanzi, due piccoli capolavori: "The Favorite Game", nel 1963, ritratto di un giovane ebreo di Montreal con ambizioni artistiche, e "Beautiful Losers", nel 1966, dalle venature noir, un'opera epica e incomprensibile con accenti sacrilegi e religiosi. Ogni suo libro venderà nel mondo oltre ottocentomila copie. Ma la vita di Cohen è stata sempre contrassegnata da una costante irrequietezza: "Per scrivere libri hai bisogno di un posto dove stare. Quando uno scrittore lavora a un romanzo, tende a circondarsi di determinate cose. Ha bisogno di una donna. Ed è bello anche avere dei bambini fra i piedi, poiché cibo non manca. Siccome io queste cose le avevo già, ho deciso di diventare 'songwriter'".

Ma già a vent'anni si era avvicinato alla musica, fondando la band di country-western Buckskin Boys: "Ero pieno della frenesia di suonare e dimenarmi battendo i piedi, celebrando una sorta di vita emozionale insieme a tanti che la pensavano come me. Il country, allora, soddisfaceva queste esigenze". In modo naturale, seguendo un percorso interiore, Cohen ha trovato un suo stile, iniziando così ad essere il cantore della malinconia. Giunto a New York in pieno folk revival, con Dylan che spopola al Greenwich Village, Cohen entra così in contatto con Judy Collins, che lo fa debuttare al Festival di Newport. Il suo talento non sfugge al discografico John Hammond che gli propone il primo contratto. Da lì alla pubblicazione di un disco il passo è brevissimo.

Il suo album d'esordio, Songs Of Leonard Cohen , uscito nel 1968, è quanto di più lontano si possa immaginare dagli umori "rivoluzionari" dell'epoca: mentre songwriter come Bob Dylan e Joan Baez scendono nell'arena politica, Cohen rpiega sull'individuo. Il suo universo ruota attorno a una serie di "coppie": sesso-religione (il binomio su cui Nick Cave costruirà una carriera, e che carriera!), santo-discepolo, peccato-redenzione, vincente-perdente, schiavo-padrone. E la tensione biblica di Dylan in Cohen si fa più umana e indulgente, anche se non meno "apocalittica". Originario di Montreal, città francofona del Canada, Cohen è anche il più "europeo" dei cantautori d'oltre oceano. Il suo repertorio è figlio della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, del folk americano, ma anche di una peculiare predilezione per i temi biblici (forte in tal senso l'influsso delle sue radici ebree, così come per il suo umore nero, vagamente yiddish) e per la mitologia classica. Cantore della malinconia, della solitudine, dell'emarginazione e degli amori persi, Cohen scandaglia il cuore di tenebra dell'umanità, componendo un affresco di struggente lirismo. Le sue dieci "Songs" colpiscono subito l'ascoltatore per la delicatezza del tocco, per il tono soffuso e romantico, per la dimensione profondamente intimista che le pervade e per la straordinaria grazia delle melodie.

L'iniziale "Suzanne", ripresa qualche anno dopo anche da Fabrizio De André (il suo miglior discepolo insieme a Nick Cave), è una canzone di straordinaria eleganza, dominata dal registro profondo del cantautore di Montreal che infonde un senso di smisurata tenerezza. La protagonista (che può essere liberamente considerata una santa, una vagabonda, una pazza o una puttana) diventa l'unica ancora di salvezza, l'oggetto di una devozione soprannaturale. Cohen narra pacatamente la sua fiaba, contornato da teneri arpeggi di chitarra (classica), gemiti di violino e angelici cori femminili. Le atmosfere sinistre di "Master Song", con fiati in evidenza e riverberi di tastiere sullo sfondo, devono aver insegnato molto a Nick Cave e ai tanti suoi emuli degli anni 90. La dicotomia schiavo-padrone è letta qui in un continuo ribaltamento di ruoli: per Cohen, infatti, c’è sempre gloria e luce nella sconfitta, e spesso tra vinti e vincitori si annullano le differenze. I toni si fanno ancor più soffusi e caldi nella lenta "Winter Lady", melodia per flauto e clavicembalo, mentre "The Stranger Song" sfodera quell'arpeggio di chitarra classica in pochi accordi, eppur velocissimo, che diventerà un classico coheniano (qualcosa di simile realizzerà Fabrizio De André in "Amico Fragile").

La combinazione della voce, che sussurra con la delicatezza d’un menestrello medievale, e della chitarra classica, finemente arpeggiata, è impeccabile. Basta anche solo questo binomio a rendere magica l'atmosfera di "Sisters of Mercy", un'altra ballata trasognata in bilico tra una ninnananna e un salmo religioso. Anche se le protagoniste sono prostitute. Attorno all'asse voce-chitarra, però, affiorano altri suoni: sprazzi di fisarmonica, trilli di campanelli, tintinnii di xilofono. E’ la canzone da cui prenderà il nome uno dei gruppi più "scuri" della storia del rock: i britannici Sisters Of Mercy. Perfetto crooner in giacca e cravatta, come da copertina, Cohen non si scompone mai. Nemmeno quando la musica sale di ritmo, come nella trascinante serenata di "So Long, Marianne", con batteria e violino a dar man forte al suo canto. Nemmeno quando c'è da dirsi addio, come nella ballata di "Hey That Way To Say Goodbye", intrisa di umori country. E nemmeno quando scende per strada tra i disperati di "Stories Of The Street", dove pure si mette a nudo con feroce realismo. La cupa parabola di "Teachers" e la gelida "One of Us Cannot Be Wrong", infine, chiudono l’album nel segno di una contrita mestizia.

Songs Of Leonard Cohen insegnerà a tanti aspiranti songwriter come si possa creare il massimo della drammaticità con il minimo necessario di arrangiamenti. Il paesaggio è scarno, freddo, invernale: un grande vuoto popolato di spettri che vagano senza meta o perfino "per sbaglio"("Some Girls Wander By Mistake" in "Teachers"). Eppure in tanta desolazione l'emozione è dietro l'angolo, pronta a sorprenderti e a colpirti al cuore. Perché Cohen sa come scalfire la scorza amara della solitudine e violare l'intimità dei sentimenti.

Songs From a Room (1969), il suo secondo disco, prosegue sulla stessa falsariga, tra arrangiamenti scabri e claustrofobici, e storie d'ordinaria disperazione. "Seems So Long Ago Nancy" è una meditazione al ralenti che implode su se stessa in un vortice di pura angoscia. Le epiche "Story Of Isaac" e "The Partisan" scavano nel rapporto tra l'uomo e la barbarie della guerra. Ma il capolavoro assoluto del disco è "Bird On A Wire", disperato apologo su libertà e solitudine: "Like a bird on a wire/ Like a drunk in a midnight choir/ I have tried my way to be free". Ad aprire uno spiraglio di luce in tanta oscurità sono le conclusive "Lady Midnight" e "Tonight Will Be Fine", declamate da Cohen su toni fiabeschi e trasognati.

Songs Of Love and Hate (1971) consacra ancora una volta Cohen maestro del senso di mortificazione e cantore della solitudine. Aumenta la durata dei brani e affiora talvolta un leggero accompagnamento d’archi, ma restano sempre scarne e tese le atmosfere, improntate a un cupo esistenzialismo. L'abbinamento chitarra-voce continua a funzionare, mantenendo intatto l'originario incanto. Il capolavoro stavolta è "Famous Blue Raincoat", quadretto ghiacciato di un'amicizia finita e tradita: "And what can I tell you my brother, my killer/ What can I possibly say?/ I guess that I miss you, I guess I forgive you/ I'm glad you stood in my way". Lo spirito epico di Cohen, invece, si esprime al meglio nella struggente ode a una Giovanna d'Arco altera e stanca (un altro brano che sarà reinterpretato da De André). "Last Year's Man" è invece l'ennesima parabola para-religiosa di un uomo sempre più perso nei suoi tormenti esistenziali.

Nel 1972 esce Live Songs, l'unico suo album dal vivo, con una incredibile improvvisazione di 14 minuti su "Please Don't Pass Me By" oltre alle versioni live di canzoni tratte dai suoi tre album. Su New Skin For the Old Ceremony (1973), che musicalmente ha un sound più orchestrale (opera del produttore John Lissauer), proseguono le sue investigazioni sugli anfratti più reconditi dello spirito umano.

Per alcuni anni, poi, Cohen si allontana dalle scene, pubblicando solo un album di successi, Best of Leonard Cohen (1975). Nel 1977 torna con Death Of A Ladies' Man, disco dalla gestazione controversa a travagliata: inizia come una collaborazione con il famoso produttore Phil Spector ma si conclude con Cohen escluso dalle ultime sedute di registrazione. "Fu una catastrofe", ricorda Cohen. "Le voci sono tutte mal fatte e Phil ha mixato il disco di nascosto. Dovevo decidere se mettermi a fare una guerra o lasciare perdere. Ho preferito lasciare perdere".

Recent songs, del 1979, è un disco ancor più complesso. Coadiuvato da Henry Lewy, Cohen non celebra solamente i travagliati amori di coppia, ma comincia a riflettere sulle sue lunghe esplorazioni nell'arena delle religioni, arrivando perfino a far parte di Scientology, prima di approdare finalmente al buddismo. Una volta Allen Ginsberg gli domandò come faceva a conciliare la religione giudaica con la dottrina Zen, e Leonard ribatté che lo Zen è più una forma di meditazione atea che una religione deistica. Anche quando viveva a Chelsea Hotel e ingeriva Lsd, coltivava un profondo e mai superato senso di autocompassione. Non diede mai colpa del suo malessere alla famiglia, ovvero alle usanze della sua "tribù".

Various Position, del 1984, è un approfondimento delle sue riflessioni religiose, ma queste specie di salmi, tutti nati da una dolorosa odissea spirituale ("Hallelujah", "The Law", "Dance Me To The End Of Love", "If it Be Your Will") suonano talmente fresche e gradevoli da poter essere scambiati per "ordinarie" canzoni d'amore. In realtà, in questo periodo il dramma filosofico e religioso del cantautore canadese è talmente profondo da sbilanciarlo completamente. "C'erano molti lati di me che avevo sostenuto con la religione" dichiarò Cohen a L.A. Style nel 1988. "Se hai a che fare con questo materiale non ci puoi mettere Dio. Pensavo che potevo illuminare il mio mondo e quello della gente intorno a me e di potere prendere il cammino di Bodhisattva cioè il cammino dell'aiutare gli altri. Pensavo di poterlo fare ma non ci sono riuscito. Questa è una strada dove persone molto più forti, generose e nobili di me si sono bruciate. Quando si comincia a trattare materiale sacro ci si lacera profondamente".

I'm Your Man, l'album del 1988, è la sintesi di tutta l'amarezza e la paura di affrontare l'esistenza. Un disco accolto finalmente in maniera entusiastica dalla critica americana, che definisce la sua voce "simile a un rasoio". La stessa critica che riteneva "impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole". Grazie a ballate formidabili, come "First We Take Manhattan", "Tower Of Song" e "Ain't No Cure For Love", e a una fortunata fusione tra la radice folk di Cohen e arrangiamenti più ritmati e moderni, l'album conquista il primo posto nelle classifiche di molti paesi europei. Con questo disco, Cohen conferma di non essere solo il glorioso fossile di un'epoca morta e sepolta, quella del folk e dei sogni hippie, ma di essere davvero un cantautore universale, in grado di aggiornare il proprio suono e i propri testi allo spirito del suo tempo senza mai perdere la sua aura di "classicità".

Nel 1992, con la pubblicazione di The Future, il suo undicesimo disco, Cohen torna a levare la sua voce per un'angosciata e apocalittica profezia sul futuro dell'umanità: "Give me back the Berlin wall/ Give me Stalin and St Paul/ Give me Christ or give me Hiroshima/ Destroy another fetus now/ We don't like children anyhow/ I've seen the future, baby: it is murder" (la memorabile title track). Un pessimismo cosmico che pervade un po' tutta l'opera, trascinata anche da brani come "Waiting for the Miracle", "Closing Time" (che qualcuno ha definito la sua canzone più bella di sempre) e "Anthem", capaci ancora una volta di aggiornare il Cohen-sound al ritmo dei tempi: niente più folk acustico, ma una sorta di pop d'autore dai contorni oscuri e inquietanti. L'album diventerà un grande successo internazionale e si rivelerà il più venduto in assoluto della sua discografia.

Molti sono i registi che hanno voluto la sua musica come colonna sonora, da Robert Altman (il cui film "I Compari" del 1971, divenne una sorta di lungo video delle sue canzoni) a Nanni Moretti che in "Caro Diario" ha inserito proprio "I'm Your Man". E Jennifer Warnes ha pubblicato nel 1986 il fortunato "Famous Blue Raincoat", un disco composto interamente di canzoni di Cohen.
Oltre a scrivere e a fare canzoni, l'artista canadese ama anche elaborare i propri video: nel 1984 ha scritto, diretto e musicato "I Am A Hotel", un corto di mezz'ora che si è aggiudicato il primo premio al Festival International de Television de Montreux (Svizzera) ed è stato sottoposto alla giuria degli Oscar. Ha collaborato con il cantautore Lewis Furey su "Night Magic", una opera rock cinematografica per la quale ha vinto il premio Canadian Juno per la "Miglior Colonna Sonora" nel 1985. Ha anche interpretato un cameo, come attore, nella serie "Miami Vice".

Per lungo tempo, poi, il maestro canadese scompare dalle scene. Dal 1993 al 1999, vive in un monastero zen a Mount Baldy, 200 chilometri da Los Angeles. Solo, lontano dal mondo, in un silenzio senza alterazioni. Dal suo esilio volontario, filtrano poche notizie. Ma arriva ancora della musica. E' quella di Field Commander Cohen, un album dal vivo con materiale la cui registrazione risale al suo tour del '79. Un disco che si avvale di arrangiamenti particolarmente ricchi, che donano nuova luce a classici come "Lover, Lover, Lover", "Hey That's No Way To Say Goodbye", "The Stranger Song", "Memories" e "So Long, Marianne". Un album che suona molto rock e testimonia la naturale paternità di Cohen sulle frange più colte e poetiche del cosiddetto post-rock.

Nel 2001 Cohen rompe definitivamente l'esilio zen in cui si era rifugiato e pubblica Ten New Songs, primo lavoro in studio dopo quasi dieci anni, registrato con l'aiuto della vocalist e autrice Sharon Robinson. Da due anni è tornato nel suo appartamento da scapolo, un duplex che divide con la figlia. "Lo dice sempre anche Roshi, il mio maestro zen che ora ha 94 anni: il paradiso non è su questa terra - ha commentato ironicamente in un'intervista a "Musica"-. Ho cercato per anni di convertirlo al vino rosso, ma continua a preferire il sakè... Decisi di entrare nel monastero di Roshi perché cercavo delle risposte. E ci sono rimasto più di quanto pensassi perché il maestro era affidato alle mie cure e adorava le mie zuppe di pollo. Non cercavo una nuova religione né l'ebbrezza di una conversione. Sono nato ebreo e morirò ebreo, la religione di famiglia già soddisfa tutti i miei appetiti spirituali. Tornare a casa è stata una bella sensazione". Il disco comunque riflette ancora il periodo-zen di Cohen, come testimoniano alcuni dei brani ("Love Itself", "In My Secret Life").

Cohen, che nel frattempo ha compiuto 70 anni, torna il 25 ottobre 2004 con un nuovo disco, Dear Heater, comprendente dodici brani inediti e una versione live del pezzo country "Tennessee Waltz", già reso popolare da artisti come Patti Page e Chet Atkins. "Il disco è come un quaderno di appunti, una miscellanea di idee e stati d'animo, di osservazioni e di digressioni", scrive di lui lo scrittore e critico Leon Wisielter nelle note della casa discografica. Ancora accompagnato in pianta stabile da Sharon Robinson, Cohen riduce il peso degli arrangiamenti e trasforma molti brani in un esercizio di puro "spoken word". Nella title track, sembra quasi di rivedere passare davanti gli spettri delle amanti del disco d'esordio, ormai invecchiate e stanche: ""Cara Heather, per favore cammina ancora a fianco a me/ Con un drink nella tua mano e le tue gambe bianche/ Retaggio dell’inverno".
"The Letters", invece, riprende il discorso di "Famous Blue Raincoat", quello della lettera di un uomo tradito al suo rivale. "On That Day" è la sua rievocazione dell'11 settembre americano, scritta da par suo, ovvero con intensità e senza retorica. E a commuovere è anche l'ironia senile di "Because Of", dove Cohen canta di nude signore che urlano "Guardami Leonard, guardami per l’ultima volta". Quasi un malinconico omaggio alle (tante) amanti che hanno segnato la sua vita.

All'inizio della carriera, Leonard Cohen diceva di "voler essere solo un poeta minore". Per ora, resta con ogni probabilità il massimo poeta che la canzone d'autore abbia saputo esprimere.
Fonte: ondarock.it